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Intervista a Monica Testa

Monica Testa, piemontese di nascita ma abruzzese di adozione, assistente sociale libero professionista, iscritta col n. 1635 all’Ordine degli Assistenti Sociali della Regione Abruzzo. Dal sito web della sua impresa, www.studiosocialetesta.it, desumiamo una professionista specializzata sul versante della famiglia, la sua attività di consulente familiare e quella più specifica, in ambito giudiziale, di Consulente Tecnico di Parte, la definiscono come un’esperta del rapporto genitori-figli. Una consulente che basa la sua visione su di una interessante conoscenza dei vari significati odierni dati alla famiglia, luogo relazionale, affettivo e nutritivo, con relativi codici da comprendere ed accompagnare per una genitorialità attivamente e pienamente vissuta.

DOMANDA: Una collega abruzzese in libera professione ci sorprende non poco,specie in terra d’Abruzzo, regione da cui spesso gli assistenti sociali emigrano. Una libera professione tutt’altro che frugale, qui abbiamo uno di studio con tanto di targa,ma ciò non ci basta, a noi interessa la persona “in carne ed ossa” dietro i pur necessari formalismi.

Chi è Monica Testa?

RISPOSTA: La domanda potrebbe sembrare banale ma, in realtà, la rispostapresuppone un’approfondita conoscenza di se stessi e di ciò che si vuole trasmettere achi legge. Ho iniziato a pensare ad una serie di aggettivi che mi descrivessero e che venivano fuori dalla mia mente a fiumi come i titoli di coda di un film. Mi sono soffermata un attimo a riflettere su quale sia l’aspetto che mi caratterizza maggiormente, e desidero condividere, e credo che sia il mio essere mamma. Sono, infatti, per prima cosa mamma di due ragazze e ho provato a trasportare questa sorta di “vocazione” nel mio lavoro di “social worker”, come amo definirmi, ossia diassistente sociale libero professionista. Sono, infatti, specializzata nella consulenza genitoriale, nel lavoro con gli adolescenti e nella mediazione familiare. Credo molto nella prevenzione primaria, per questo ritengo fondamentale il dialogo tra genitori (che cerco di stimolare nei corsi sulla genitorialità che organizzo) in cui ci si mette in gioco per provare a capire insieme i bisogni e le problematiche di bambini e ragazzi di oggi, al fine di instaurare con i nostri figli un dialogo vero che li aiuti a tirar fuori tutte le loro potenzialità, consentendogli di affrontare al meglio la vita. Del resto per costruire un futuro migliore dobbiamo puntare tutto sulle nuove generazioni.

DOMANDA: Dietro una mamma c’è sempre un papà. O meglio: dovrebbe esserci. La genitorialità è fatta a due, due soggetti funzionalmente intercambiabili (lavare i piatti, cambiare un pannolino, fare le coccole o dare la pappa) ma psicologicamente diversi. Sbaglio?

RISPOSTA: La questione è molto delicata e nello stesso tempo complessa. Perintrodurre quest’argomento, mi piace richiamare l’art. 337 ter c.c. secondo cui: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti diciascun ramo genitoriale”. Il diritto ci dice, dunque, che i figli hanno bisogno di entrambi i genitori (e non solo).

Essendo un’assistente sociale, con alla base della propria formazione la disciplina di sintesi propria del Servizio Sociale (che usa consapevolmente approcci disciplinari diversi per comprendere le cause multifattoriali dei bisogni e dei problemi umani), per approfondire lo scopo del compito genitoriale non posso non attingere anche da scienze quali la psicologia e la pedagogia secondo cui compito dei genitori è quello di garantire un ambiente sicuro, nutriente e amorevole, che consenta al figlio un periodo di crescita felice, favorendone lo sviluppo di conoscenze, valori e comportamenti necessari a renderlo un adulto competente ed equilibrato. Per esplicare al meglio il ruolo genitoriale è auspicabile che i genitori attuino un buon gioco di squadra attraverso una sufficiente coesione educativa volta a promuoverel’indipendenza e l’autonomia dei figli. Accordarsi fra genitori è, forse, più importante che parlare con i figli stessi. Non ci sono regole fisse, si può essere più o menointercambiabili, l’importante è avere sempre lo stesso obiettivo finale e, magari, sarebbe meglio essere complementari che uguali.

DOMANDA: È vero che il ruolo genitoriale è cambiato nel corso di una sola generazione: da ruoli rigidi a ruoli flessibili, da padri-padroni a padri affettivi, da madri sottomesse a madri attive. È vero che il modello oggi prevalente è il gioco di squadra disegnato ed agito a seconda delle peculiarità ed auspicato in base al motto“parità di sesso”, eppure, a mio avviso, ci si può perdere in quest’orizzonte che appiattisce le diversità. Padri e madri sono davvero uguali nell’educazione?

RISPOSTA: In linea di massima, per semplificare, possiamo fare una sorta di classificazione delle funzioni genitoriali distinguendo i cosiddetti codici materni (gratificare, soddisfare i bisogni, proteggere, garantire l’accudimento) che presiedono all’infanzia, dai codici paterni (dare responsabilità, stimolare alla conquista della vita,dare regole, porre limiti, suscitare coraggio) che presiedono all’adolescenza. Quanto detto, naturalmente, non significa che i ruoli siano fissi e immutabili, o che nell’infanzia il padre non sia importante e possa esimersi dal suo ruolo, né tanto meno che in adolescenza la madre debba delegare tutto al padre, ma semplicemente che i figli, per uno sviluppo equilibrato, hanno bisogno di entrambi i codici. Possiamo, poi, dire che i padri di oggi sono maggiormente emotivi ed affettivi e si relazionano con i propri figli in maniera differente rispetto ai nostri padri considerati i “padri della legge”.

La preadolescenza, e ancor di più l’adolescenza, costituiscono il “momento di gloria”dei papà in cui possono sostenere i figli, che cercano di allontanarsi dai genitori e dagli adulti, alla ricerca della propria identità. A mio avviso la complementarità dei ruoli rappresenta, comunque, sempre un arricchimento.

DOMANDA: L’adolescenza è una fase in cui si costruisce l’identità, che è prima di tutto sessuale: una fase delicata in cui le ribellioni o i conflitti altro non sono che normali assestamenti della personalità. Il sentirsi maschi o femmine non deriva solo dalla genitalità prorompente, c’è pure un’identificazione col rispettivo genitore e, a dirla con le parole di Freud, una fase di amore/odio con l’altro fino a trovare una sintesi positiva. Quindi è necessaria non solo la presenza fisica di mamma e papà e la loro complementarietà sui compiti di cura, ma pure l’alimentazione dei modelli di genere: il papà fa il papà e la mamma fa la mamma. I codici anzidetti non sono una“mappa sicura” per navigare in questo mare tempestoso, in cui i ragazzi pescano altri modelli anche dall’esterno?

RISPOSTA: Parlare di “modelli di genere” non è cosa facile né scontata poiché conduce, spesso, all’annosa diatriba tra posizioni favorevoli e contrarie alla teoria digenere. Io preferisco parlare di “educazione di genere” ponendo l’accento sulle differenze tra il genere maschile e femminile in quanto, come ho già detto inprecedenza, ritengo che la “diversità” sia una ricchezza e vada valorizzata, naturalmente rispettando le pari opportunità ed impegnandoci ad abbattere gli stereotipi di genere. Parlare di educazione di genere è molto importante durante l’adolescenza fase in cui, come ha ben detto, i ragazzi costruiscono la propria identità, ma sarebbe opportuno che già da piccoli bambini e bambine imparassero a rispettare le diversità intese come “unicità”, dobbiamo insegnar loro che non è necessario essere identici né tantomeno flessibili rispetto al genere, ma bisogna essereuguali nelle opportunità e nel rispetto dell’altro, è necessario che tutti abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità. I codici materno e paterno, di cui ho accennato in precedenza, non rappresentano una mappa sicura ma una sorta di guida generale che deve indurre entrambi i genitori a capire che i figli hanno bisogno di due figure che non si annullino l’una nell’altra, ma che si integrino, ognuna con le sue specificità.

DOMANDA: Indubbiamente c’è un fatto di cultura, che può anche non trovare sintonia tra mamma e papà. Quante volte l’adolescente in crisi trova frontigenitoriali confusi, se non in conflitto? In fin dei conti genitori non si nasce, ma lo si diventa. Ma oggi ciò non è per nulla facile: forse i nostri avi avevano modelli appresi, tramandati o semplicemente assimilati per tradizione, oggi invece essere genitori significa sovente fare esperienza di solitudine. Probabilmente il nostro tanto decantato (a parole) welfare dimentica le famiglie e ancor più non mette al centro labasilare opera di educazione genitoriale. Perché c’è basso interesse politico a farlo?Carenza di fondi economici? La difficoltà ad ammettere che i consultori pubblicihanno fallito? L’ostinazione a non delegare le opportunità di crescita al mondo extra- servizi, penso alle chiese, alle scuole o alle associazioni? Sbaglio?

RISPOSTA: Possiamo sicuramente affermare che, a differenza delle generazioni precedenti, quella attuale è la generazione di genitori più fragile della storia.L’infodemìa anziché agevolare l’instaurarsi di una relazione positiva tra genitori e figli, attraverso una maggiore conoscenza del funzionamento biologico ed emotivo di questi ultimi nonché dei loro reali bisogni, ha prodotto smarrimento. Non vi è più una guida da seguire, i vecchi modelli genitoriali vengono spesso rifiutati senza essere, però, sostituiti da nuove teorie scientificamente validate. Il welfare, d’altro canto, sioccupa quasi esclusivamente di “recupero” dimenticando, spesso, l’importanza degli interventi di prevenzione primaria. Non so dire se questo avvenga per il basso interesse politico, per la carenza di fondi economici o per la difficoltà ad ammettere che i consultori pubblici hanno fallito, forse per tutti questi motivi messi insieme. Di sicuro è vera l’affermazione iniziale secondo cui genitori si diventa e, indubbiamente, la componente sociale e culturale giocano un ruolo importantissimo a riguardo. Sarebbe auspicabile, quindi, che tutta la comunità sociale si facesse “carico” dell’educazione delle nuove generazioni, di certo non attraverso il relativismo che oggi impera, ma attraverso il ricorso al mondo extra-servizi fatto di chiese, scuole, associazioni ed anche di tanti bravi e stimati professionisti che si occupano di genitorialità e di minori. Queste figure professionali e queste agenzie educative possono aiutare i genitori disorientati ad acquisire una maggiore consapevolezza del loro ruolo. Le nuove generazioni rappresentano il nostro futuro e dovranno presto assumersi la responsabilità di guidare una società. Non possiamo permetterci di avere “fronti genitoriali confusi o addirittura in conflitto” ma abbiamo bisogno di genitori che richiedano ai propri figli senso di responsabilità e sacrificio. Rivolgersi ad un professionista può aiutare i genitori a perseguire un fine comune, ossia quello di essere per i propri figli, come diceva John Bowlby, una base sicura dalla quale partire alla scoperta del mondo ed un porto sicuro al quale poter ritornare.

DOMANDA: In fin dei conti siamo in una società polverizzata, in cui le risposte ai propri bisogni sempre più richiedono un fronte variegato di proposte. Siamo inoltre una società monetizzata, dove si acquista quel che serve non solo per bisogno, ma sempre più per consapevolezza, con un occhio costante alla professionalità delle persone a cui ci affidiamo. Ma non funziona già così? Se mi serve un buon avvocato, mi informo su chi ha reputazione sulla piazza. Se mi serve un dentista, non apro le pagine gialle, ma mi affido alle referenze dei miei conoscenti. In entrambi i casi io cliente-pagante pretendo qualità. Perché non dovrebbe essere diverso nel caso degli assistenti sociali? È questa la scommessa da parte di chi intraprende la libera professione nel nostro settore. Che ne pensa?

RISPOSTA: Sono perfettamente d’accordo con lei. Quella dell’assistente sociale è una attività abbastanza giovane e lo è ancor di più nella forma della libera professione. Le sue origini si collocano nel periodo della rivoluzione industriale per rispondere ai bisogni delle fasce povere della popolazione, attuando quelle riforme sociali proprie delle politiche del pauperismo. Ancora oggi nell’immaginario collettivo, e a volte anche di alcuni colleghi, la figura dall’assistente sociale rimane legata quasi esclusivamente a problematiche di tipo economico e, per questo, si ritiene che i suoi servizi e le sue consulenze debbano essere forniti gratuitamente. In realtà, l’assistente sociale non è solo erogatore di prestazioni ma è chiamato, soprattutto in libera professione, a rispondere a quei “bisogni e problematiche sociali”(tutela, difficoltà genitoriali, difficoltà di comunicazione, disabilità…) che si presentano nelle diverse fasi del ciclo di vita (minori, giovani, adulti, anziani) e che, a volte, non ricevono le giuste attenzioni da parte dei servizi pubblici. Dubito che la libera professione degli assistenti sociali riceverà una spinta dall’alto da parte dell’Ordine o attraverso un nuovo welfare, credo piuttosto che tocchi a noi liberi professionisti smontare gli stereotipi, dare prova delle capacità e potenzialità che ci contraddistinguono, mettendo in campo le nostre competenze che partono da precisi riferimenti teorici (discipline di servizio sociale, sociologia, psicologia, antropologia, diritto) e lavorare con sempre maggiore professionalità. È una bella scommessa, sicuramente non facile ma nemmeno impossibile. Nel mio caso sta già funzionando.

Ugo Albano

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