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Devianza
La Difficoltà di Adattarsi al Contesto Sociale
Relativamente al difficile tema dello Stalking e della Rieducazione, la Dott.ssa Testa ha descritto in un saggio, pubblicato sul sito studiocataldi.it, il modo in cui è stato affrontato un caso pratico davanti al Tribunale di Sovreglianza.
L’art. 612-bis c.p.
Violenza di genere, stalking, femminicidio, sono termini divenuti oggi tristemente ricorrenti.
Secondo la Convenzione di Istanbul del 2011 la violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione (art. 3 lett. a); I paesi dovrebbero esercitare la dovuta diligenza nel prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli (art. 5).
CONSULENZE PRIVATE
Il delitto di atti persecutori, meglio noto come stalking, è normato in Italia dall’art. 612 bis c.p. che recita “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità’ propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita“.
In realtà la difesa delle donne vittime di violenza non può essere semplicemente affidata ad una legge. Sarebbe, invece, opportuno analizzare l’aspetto sociale di questa problematica che nasce da una forma di discriminazione, ancora profondamente radicata all’interno della nostra società, nei confronti delle donne costrette ad una posizione subordinata rispetto agli uomini.
La caratterizzazione del reato di stalking è data dall’accento che viene posto non tanto sulla condotta criminosa dello stalker quanto
sulle conseguenze che esso produce nella vita della vittima introducendo, infatti, categorie psico-sociologiche come “stato di ansia”, “relazione affettiva”, “abitudini di vita”.
Grazie all’art. 612 bis c.p.c. il reato di stalking ha finalmente un nome, e può essere punito con la reclusione fino a cinque anni che, spesso, non è comunque sufficiente a tutelare le vittime, questo perché, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Stalking, almeno un persecutore su tre è recidivo e dopo la denuncia o la condanna torna a perseguitare la vittima.
Nonostante i dati relativi a questo fenomeno siano allarmanti raramente le istituzioni se ne fanno carico, limitandosi a mettere in atto misure quali l’allontanamento o al massimo la detenzione che assumono, così, sia una valenza punitiva sia una funzione di controllo della pericolosità sociale, che risulta, in questo modo, essere una tutela a “termine”.
La sola coercizione non è sufficiente a rendere lo stalker consapevole dei suoi errori e i casi di cronaca ne sono la prova sconcertante.
Il “persecutore” è un individuo che presenta gravi difficoltà ad accettare ed elaborare un abbandono a causa di un disagio psicologico pregresso e sarebbe, per questo, importante che il legislatore prevedesse anche un percorso per il reo conformandosi a quanto espresso dal Consiglio d’Europa che, tra le altre cose, invita gli stati membri a: “Dare la possibilità agli autori di violenza di seguire un programma di trattamento, non come alternativa alla sentenza di condanna, ma come misura aggiuntiva volta a prevenire futura violenza. La partecipazione a tali programmi dovrebbe essere offerta su base volontaria”.
Giungiamo, così, a ribadire il principio del finalismo rieducativo sancito dall’art. 27 della Costituzione (“Le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”) che presuppone la necessità del reinserimento del reo nella comunità dalla quale si era estraniato, attivando la funzione della prevenzione speciale che consiste nell’eliminare il pericolo che il soggetto ricada in futuro nel reato.
Un caso pratico affrontato avanti al Tribunale di Sorveglianza
Gli istituti carcerari e l’UEPE si adoperano per realizzare progetti atti a riabilitare il reo ad una vita sociale “normale”. Quando, però, ci troviamo di fronte a reati come quello di stalking, commessi da chi ha un disagio psicologico, sarebbe buona norma affiancare al percorso riabilitativo un percorso rieducativo. Non è sufficiente, infatti, inserire lo stalker in un contesto lavorativo o di volontariato che, seppur utile, non può raggiungere da solo l’obbiettivo di eliminare la violenza maschile sulle donne bisognerebbe, piuttosto, promuovere programmi di cambiamento rivolti ai maltrattanti con interventi che tengano conto di fattori socio-culturali, fattori relazionali e fattori individuali.
Questi programmi non sempre possono essere sviluppati dalle istituzioni (per mancanza di fondi, tempo e risorse umane) ma, a volte, le promising practices possono essere tentate da soggetti privati.
È proprio questo il caso che ha permesso al Tribunale di Sorveglianza di ammettere al regime di semilibertà, un detenuto condannato ad anni 3 e mesi 4 di reclusione per il reato ex art. 612 bis.
Questo risultato non va letto in direzione di uno sconto di pena, ma come un processo necessario per attivare nel reo una presa di coscienza delle condizioni che lo hanno portato a compiere quei gesti lesivi della dignità e dell’integrità psico-fisica della donna e, dunque, indispensabile per produrre in lui una determinazione al cambiamento.
Il percorso di riabilitazione (effettuato presso un centro specializzato di Roma) si propone di condurre il maltrattante a risultati caratterizzati da: messa in discussione di sé stesso, impegno nell’intraprendere un percorso attraverso la comprensione dei motivi profondi dei suoi comportamenti, assunzione di responsabilità, disponibilità all’ascolto, riflessione attivata spontaneamente, forte desiderio di cambiare. Il Progetto riabilitativo e psico-educativo ha preso piede in maniera un po’ insolita in quanto è nato grazie alla collaborazione tra lo studio legale che difende il reo ed un’assistente sociale libero professionista. I professionisti hanno predisposto il progetto, concordandolo naturalmente con il cliente, valutandone la fattibilità con l’istituto carcerario presso cui è detenuto, e presentando un’istanza al Tribunale di Sorveglianza che l’ha accolta favorevolmente.
Il lavoro multidisciplinare, che sta conoscendo negli ultimi anni uno sviluppo notevole, ha permesso di andare incontro ai bisogni del cliente guardandolo come persona nella sua “interezza” e non frammentata nei suoi singoli bisogni.
Il connubio tra la figura professionale dell’avvocato e quella dell’assistente sociale libero professionista, permette di offrire un servizio integrato di tutela legale e sociale che consente di realizzare un intervento di aiuto globale, attraverso un lavoro di rete attivandone di nuove e sostenendo quelle già esistenti, al fine di promuovere il benessere della persona.
Vi è, quindi, un accompagnamento del cliente in un cammino verso lo sviluppo dell’empowerment che viene svolto con una visione lungimirante di tutela della vittima e di recupero del reo.
Solo questa coincidenza di interessi potrebbe trasformare le “promising practices” in “best practice“.
Lo Studio Sociale Testa
Può aiutare a sviluppare progetti di recupero e reinserimento nel contesto sociale.
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